lunedì 19 aprile 2010

Cosette Miserabili - Romanzo

Dedico queste mie pagine a tutti i piccoli orfani d’ogni era e d’ogni luogo, postati in freddi orfanotrofi: privati della dignità di ‘persona’, della fanciullezza, dei giochi, del sorriso, dell’amore!

A loro, crocifissini di ieri, d’oggi e di domani và il mio pensiero e tutto il mio bene

Cosette Miserabili

E dire ch’erano gioia
luna e stelle...
figlie di Re
bouquet d'aurora...!

"Decima d'aneto
per sacro presente:
ladra d'avi e di progenie
ludica funesta
ruba
vite baciate.
Parole laviche
da bocche di ghiacciai,
magma sferzante
arroganza farisaica
veste
figlie del nulla,
concrete false
astratte sagome di vento,
neri fiocchi
anni secondari...
Cosette miserabili
genie di nubi
ed ombre di terra
piovono
lacrime azzurre,
grande stupore fuso!
Ancestrali rimedi
su perduti nomi:
cifre non amate
sigilli di numero
in bracci di stoffa...
Cinquanta piedi scalzi
irrequieti
bocci alati
difficili al riposo,
danzano
musica sognata
vestine corte
risate al vento
su arsi camposanti.
Mute
genetiche nenie ataviche
di bambole obliate...!"

E dire ch'erano gioia,
luna e stelle...
figlie di Re
bouquet d'aurora...!

Aliquem tutorem instituere fliorum orbitati

Cusiddi Miserabili

E diri ch'erunu gioia
luna e stiddi...
figghi di Re
sciuri d'aurora...!

Decima ufferta di benifatturi
ppi sacru prisenti:
latra di matri e figghi
joculana fatali
ruba
viti vasati.
Paroli di focu
di vucca di ghiacciai,
lava smaccusa
arruganza farisaica
vesti
figghi di lu nenti
cuncreti fàusi
fantasiusi sàgumi di ventu,
niri giummi
anni sicundari...
Cusiddi miserabili
genii di nuvuli
e ùmmiri di terra
chiovunu
lacrimi cilesti,
granni stupuri fusu!
Antichi rimedi
sùpira a nomi pirduti:
cifri nun amati
sigilli di nùmmiru
nni vrazza di pezza...
Cinquanta pedi scàusi
scueti
bocci alati
difficili a lu riposu
danzanu
sugnata musica
nichi vesti
risati a lu ventu
sùpira a nfucati campusanti.
Muti
genètichi antichi cantilene
di pupiddi dimenticati...!

E diri ch'erunu gioia,
luna e stiddi...
figghi di Re
sciuri d'aurora...!

Aliquem tutorem instituere fliorum orbitati. (Traduzione in lingua siciliana di Patti Alessio)


Cap. I°

Il mio nome è Pietra Luce

Sono nata a Kars, paesello sui monti Iblei proseguo degli Irei , dove abitavano i miei genitori, e che dista circa 48 km. circa dal capoluogo Siracusa: antica città greca-romana, gioiello d’arte e d’antichi siti archeologici e architettonici; ben servita di medici, ospedali, cattedrali, seminari, banche, brefotrofi, patrie galere, palazzi di giustizia, forze armate ecc.,: tutta l’Italia in una cittadella.

Il mio paesùcolo faceva parte di una triade di piccoli borghi distanti l’uno dall’altro una decina di km. circa. Uno aveva origine greche e infatti vanta il suo bel teatro un po’ più piccolo di quello della superba Siracusa, ma altrettanto bello. Il secondo era arabo e il terzo normanno.

Il paesino di antichi vestigi arabe, Kars, (dall’arabo ‘castello’), per l’appunto il mio, era sito a 700 mt. sul livello del mare, circondato da boschi fitti e lussureggianti.

Non fu mai bombardato in nessuna guerra: era invisibile! niente grattacieli o monumenti con pinnacoli, solo piccole casette bianche e rosa basse e con l’orticello sul retro. Non c’era in nessuna cartina geografica ed erano a conoscenza della sua esistenza solo i discendenti dei nativi sparsi nel mondo, la Curia e la Provincia. Sono certa che nemmeno oggi il sofisticato Google Earth riuscirà mai a scoprirlo! Infatti nei secoli in ogni guerra fu rifugio inviolato dei disertori.

La sua aria era fine e con un microclima mediterraneo delizioso: l’estate era calda ma non opprimente, d’inverno cadeva la neve e giovani e vecchi si divertivano giocando mentre il caldarrostaio intiepidiva l’aria e offriva a tutti le prime scottanti castagne. Ci si conosceva tutti ed anche i passeri e le rondini riconoscevano gli uomini che non li cacciavano e davano loro le briciole e, non tradivano mai! ogni passeraceo tornava sempre alla stessa casa per il rancio e il nido.

La nonna paterna si chiamava Pierangela era di umili origini, ma bella e intelligente aveva sposato l’uomo più ricco del paese, un vecchio nobile decaduto, Ottavio Filiadei, più anziano di lei di quarant’anni, con la fissa dei nomi romani: lei aveva 18 anni e lui 58.

Nonno Ottavio dopo il matrimonio con la sua bella Pierangela, si ringalluzzì, ebbe un ritorno di gioventù e fece figli e figlie, finché una notte dopo le sue gesta amorose ci restò secco e in tre minuti si ritrovò con i suoi avi.

Nonna Pierangela si ritrovò una ricca vedova di figli e di debiti, in quanto il suo marito aveva sperperato tutti i beni di famiglia in viaggi, feste, battute di caccia, donne…; le rimase la casa patrizia e la sua corona di progenie. Dopo nove mesi partorì il sesto bambino ultimo regalo del seme di Ottavio al suo ventre fertile come buona terra: mio padre non conobbe mai il suo.

Quando io nacqui era tradizione battezzare i figli col nome dei nonni paterni, per continuare la dinastia. A mia madre non piaceva proprio quel nome, ovverossia ‘Pierangela’ e ripeteva a mio padre, il più bell’uomo dell’isola, che se il figlio che portava in grembo fosse stata femmina, mai e poi mai l’ avrebbe chiamata Piera perché era convinta che con quel nome sua figlia sarebbe stata una ‘pierina’ zimbello dei compagni e della vita.

Pierangela aveva rispettato gli usi della famiglia di Ottavio, chiamando il figlio con un altisonante nome romano: Flavio Giulio, ma tutti lo chiamavano solo ‘Flavio’; a mia madre per il figlio maschio i nomi andavano benissimo, anzi ad onor del vero, le piacevano molto, ma per la femmina no.

Mio padre ligio alla tradizione e al dovere non si smuoveva di una virgola e mamma Rosellina bella e testarda restava inchiodata alla sua decisione; così fu interpellata la saggezza nelle vesti della vecchia nonna e mise d’accordo la nuova generazione: ecco, il nome Piera si potrà sostituire con Pietra, e invece di Angela andrà bene Luce, visto che gli angeli sono esseri di luce, così se sarà femmina si chiamerà come la nonna Pierangela, ma con il nome modificato in Pietra Luce.

Mi raccontò in seguito mio padre che in quel minuto gli occhi di mamma si illuminarono come fari nella notte: era felice e il nuovo nome le piacque molto. Inutile dire che erano tutti convinti, o almeno lo speravano fortemente che mamma avrebbe partorito un maschio: non era mai successo nella famiglia Filiadei che un primogenito fosse femmina…! Nemmeno questa ragazzina avrebbe deluso: la sua pancia era alta e lei portava in giro la sua gravidanza felice, dritta, fiera.

Non fu così. Nacqui io e fui la delusione di mio padre e di tutto il parentado, compreso il nonno materno; mamma fu assistita dal parto dalla vecchia ostetrica di famiglia Donna Liberata, senza una gamba e con le cataratte ad ambedue gli occhi. Era una fredda sera di Dicembre e l’ostetrica con la sua carrozzina d’invalida stava assistendo in chiesa al rito vespertino del sabato sera. Chissà poiché io decisi di nascere prima, forse per l’ansia di vedere la luce che dalla culla ovattata del grembo di mia madre, avevo sentito tanto decantare.

Rosellina Melalogo in Filiadei - era al suo settimo mese di gravidanza; l’anziana levatrice stava immersa nel divino e i suoi pensieri vagabondi visitavano il paiolo di ceci che borbottava sulla brace: ‘ancora due ore posso stare tranquilla’

Non si aspettava l’urgente chiamata della vicina in ambasce: ‘vieni subito, sta per nascere il figlio di Rosellina”, si mise in confusione e strizzò l’occhio al chierichetto perché le spingesse la carrozzina. Il chierichetto si precipitò vestito ancora coi suoi piccoli abiti para-talari e con il campanello in mano; i suoi piedi erano veloci come quelli di un biblico cervo e il campanello squillava argentino ad ogni passo. Il vecchio Curato vedendo il suo monello ministrante che correva a gambe levate suonando la campanella spingendo l’invalida pensò ad un futuro morituro e corse arrancando e sbuffando dietro ai due.

La giovane madre vedendoli arrivare capì subito che l’anziano canonico l’aveva scambiata per una bella moribonda e con il suo ultimo urlo di doglia scuotendo il capo, voleva chiarire l’equivoco, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono, ella voleva dire: “alla mia porta bussa la vita e non la morte”, il prete sfinito udì le parole non pronunziate e la consolò: “Rosellina, sono venuto a benedire te e il tuo piccolo che sta per nascere, anzi visto che è prematuro lo battezziamo subito perché il battesimo salva e guarisce, quando ti riprenderai concorderemo per il Battesimo ufficiale in Chiesa.

Aveva bisogno di un medico la piccola partoriente, ma il medico condotto dei tre piccoli paesini era sempre introvabile: amava molto la caccia e passava intere giornate e settimane fuori coi suoi cani e i suoi fucili; lasciava detto alla servetta che non lo dovevano disturbare per nessuna ragione al mondo, nemmeno se fosse morta sua moglie; infatti sua moglie in seguito fu colpita da ictus e morì dopo un giorno d’agonia, lui era a caccia rientrò dopo tre giorni e c’erano i funerali in corso: si strappò i bottoni della camicia e volle tirarsi i capelli che non aveva scorticandosi a sangue la luna e promise solennemente alla sua sposa Donna Eleonora estatica nella bella bara, e alla folla dei quattro gatti del paesello, che non sarebbe mai più andato a caccia, appese i fucili al chiodo e relegò i cani in giardino perché cacciassero i topi.

Mantenne la sua promessa per circa una settimana, il tempo del lutto canonico, e poi il grido dei cacciatori lo risvegliò, riprese in mano i suoi moschetti , liberò i cani e partì fra i boschi in cerca di lepri piccoline, smemorando così la sua promessa alla sant’anima di sua moglie.

Ovviamente quando lo cercarono per mia madre come al solito lui era a caccia e nessuno se ne meravigliò: scontato, tutto scontato! impensabile trasportare la giovane partoriente in ospedale (e come?! L’autobus per la città partiva la mattina e rientrava la sera e le macchine dei nativi ci stavano sulle dita rimaste di una mano mutilata ed erano introvabili: chi a caccia, chi al frantoio chi fra le coperte con il febbrone)

E così urlando Rosellina partorì: il suo bacino era stretto, l’anziana levatrice semicieca e invalida fece del suo meglio con il forcipe, ma non poté impedire che madre e figlia ebbero delle lacerazioni profonde, solo per volere divino io e mia madre restammo vive: mamma ebbe emorragie e complicazioni varie, ma Dio e la sua giovinezza l’aiutarono: aveva circa ventiquattro anni, ma ne dimostrava sedici per la sua piccola statura e i lineamenti di fanciulla pura.

Io ero così piccola che sembravo una pupattola di pezza strattonata: ero nata settimina, faceva freddo in quella serata del 13 Dicembre e stavo per morire assiderata.

Subito alla nascita fui la grande delusione di mio padre: malgrado le loro chiacchiere sui nomi, egli era certissimo che io fossi maschio e sentendo che gli era nata una femmina se ne andò sbattendo la porta; così restarono le curiose e provvide vicine con l’invalida levatrice. Sotto la sua direzione prepararono una cullina tutta imbottita d’ovatta e sotto la culla sistemarono un bel braciere: quella fu la mia incubatrice!

Il buon canonico si commosse, stringeva nervoso il suo fazzolettone ricavato da un vecchio lenzuolo tagliato a pezzi e si asciugava lacrime e sudore finché i suoi liquami non poterono essere più assorbiti dalla stoffa e scivolavano direttamente sul pavimento; quando ci fu un po’ di calma mi battezzò con l’acqua della fontana:

“Pietra Luce io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” ,

poi ci benedisse. Mai nome dato ad un figlio fu più appropriato del mio; infatti casualmente (si aspettava la mia nascita per metà febbraio) il giorno della mia nascita era il 13 Dicembre, Santa Lucia, il cui nome significa “Luce” e mia madre guardando con tenerezza la cuna nella quale ero adagiata ripeteva: ‘la mia piccola Luce, la mia piccola Luce…” e per lei anche se mi chiamavo Pietra Luce fui sempre e solo Luce!

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